di Alessandro De Col, Area Persone Straniere

Da 8 anni lavoro all’Area Persone Straniere di Auxilium. Quando avevo 16 anni ho iniziato, senza un vero motivo, a desiderare di partire per l’Africa. Non avevo idee precise sul cosa fare una volta lí, sapevo solo di voler essere di aiuto e di voler incontrare un mondo cosí povero e cosí ricco allo stesso tempo. Ero giovane e molto confuso, per fortuna sulla mia strada ho incontrato persone che hanno saputo consigliarmi ed orientarmi per il meglio, facendomi capire che avrei potuto trovare il modo di mettermi al servizio degli altri, senza necessariamente dover affrontare un lungo viaggio. Quando ho concluso l’Università ho svolto l’anno di Servizio Civile Nazionale in Caritas e, nel 2008, ho iniziato il mio lavoro presso l’Area Persone Straniere. L’Africa che desideravo raggiungere aveva infine bussato alla mia porta.

Presso l’Area Persone Straniere ho presto imparato a mettere da parte il ruolo salvifico che l’operatore sociale troppo spesso tende ad attribuirsi e a riconoscere nell’altro non solo un “utente” con specifici bisogni, ma una persona portatrice di capacità e qualità, di speranze e desideri, di coraggio e forza d’animo. Con il tempo, ho imparato anche che, talvolta, le aspettative e i desideri delle persone che abbiamo di fronte non coincidono con i progetti che noi tratteggiamo per loro. Tendiamo a dimenticare che spesso questi ragazzi sono solo di passaggio, perché i loro sogni li conducono altrove: il centro in cui li accogliamo è un primo punto di contatto con un “mondo nuovo” e non necessariamente coincide con la realizzazione di un progetto di vita. Non “qui”, non “adesso”.

Ci rendiamo conto, così, del vero e profondo significato che va attribuito alla frase “essere di passaggio”. Solitamente le diamo un significato temporale, legato alla caducità dell’esistenza. Trascuriamo però il suo senso spaziale, legato al viaggio e al continuo spostarsi. E’ un tipo di nomadismo che non cerca solo migliori condizioni materiali ma un benessere che è condizione di vita preclusa, solo immaginata o sperata. Proprio questa speranza, nello scontrarsi con la realtà, produce insoddisfazione e porta ad un desiderio di cambiamento, di spostamento fisico, di nomadismo, appunto. Nel mio lavoro mi sono trovato e mi trovo tutt’ora a misurarmi con questo tipo di nomadismo: il tuo desiderio di creare e strutturare una nuova vita per questi ragazzi è spesso più debole del loro bisogno di ripartire nel viaggio di ricerca.

Le prime volte ti senti come un albero o un palo della luce, che scorre veloce fuori dal finestrino di un treno, un elemento in realtà statico e solido, ma che appare velocissimo ed incerto, immerso nelle leggi fisiche del moto. Costruisci un progetto, un percorso, un’idea, con la convinzione di vederlo messo in atto; invece, ti ritrovi con un letto vuoto davanti e mille domande in testa. Il castello che hai così scrupolosamente e faticosamente edificato non è altro che sabbia bagnata sull’arenile. Quanto è difficile non sentirsi presi in giro, quasi traditi, in questo rapporto in cui hai dato tanto e di cui, apparentemente, non è rimasto nulla. Quanto è semplice scoraggiarsi e affannare la testa di domande che non prevedono una risposta. E in tutto questo, si perde di vista quella che è la semplice realtà: le persone che ci stanno davanti, hanno sogni e desideri che trascendono la nostra di idea di aiuto; sono portatori di una speranza che non si argina nella nostra compattezza, nel nostro fornire risposte pronte come scatole di cartone dentro cui imballare la costruzione di un futuro immaginato. Siamo una parte di un percorso: a volte piccola, a volte immensa, a volte utile, a volte vuota; siamo uno scalino, un miglio, una piccola avventura, una stazione, un biglietto valido 6 mesi. Difficile riconoscere se stessi e le proprie capacità in un biglietto: eppure quanto lontano ti può portare? A volte un biglietto è ciò che unisce le sponde tra realtà e desiderio, il percorso tra l’immaginario ed il tangibile. Altre volte è solo un breve tratto di strada in cui le stazioni di partenza e di arrivo sono pressoché identiche.

Abbiamo fatto cosí tanto per un ragazzo, per la sua integrazione sul territorio: corsi di italiano, assistenza legale e sanitaria, una borsa lavoro con buone prospettive di assunzione. Poi d’un tratto la partenza: magari per raggiungere un fratello, per andarsi a sposare o solo per raggiungere quel paese che avevamo nel cuore da bambini e che sembra possa essere davvero la destinazione finale d’un lungo viaggio. Più semplicemente, perché non si riesce a smettere di sognare.

Abbiamo coniato il termine “sogno nel cassetto” perché siamo soliti archiviare i nostri sogni, metterli via, quasi fossimo ormai rassegnati al non desiderare. Archiviamo i nostri sogni come vecchi documenti, lasciamo che ingialliscano e prendano polvere, aspettiamo che la memoria li cancelli. Per questo ci è difficile capire chi il sogno, invece che metterlo nel cassetto, lo tiene vivo nel cuore e non se ne dimentica. Quando hai lasciato tutto, quando hai perso molto, quando hai messo a rischio la tua vita e hai ricominciato un nuovo percorso in un mondo nuovo: è in quel momento che il sogno va tenuto a portata di mano per andare verso la sua realizzazione.

Nel confronto con i migranti ci si sente così colpiti da questa capacità di sognare e sperare ancora da non saperla collocare nel quotidiano. Ci sembra quasi inutile, non ne capiamo il senso. Noi operatori abbiamo il know how e le motivazioni per offrire un’opportunità di integrazione, di ricostruzione di una nuova vita e del sé: quanto ci è difficile accettare che le persone non colgano questo aiuto e decidano invece di partire verso l’ignoto, di nuovo? Non è forse pe questo che sono fuggite dal proprio paese e dai propri affetti, rischiando la propria vita? Non sono forse partite con l’idea di trovare qualcuno come noi, in un luogo come questo, che possa offrire loro l’aiuto necessario a rimettersi in piedi? Ci convinciamo di questo ogni giorno, sicuri che i nostri ragazzi non aspettino altro che le nostre risposte pronte all’uso e ci dimentichiamo così che stiamo parlando di persone. Persone così coraggiose capaci di ricostruire il proprio sé non accettano le nostre risposte standardizzate come fossero l’unica realtà possibile.

Il nostro lavoro è difficile, perché prevede un continuo mettersi in discussione. Ci porta a farci piccoli, minuscoli, soprattutto quando invece potremmo compiacerci dei risultati ottenuti. Non abbiamo un’esattezza di riferimento, non c’è il modello perfetto cui ambire; c’è solo una continua e inesorabile ricerca di incontro con l’altro, in una relazione che ci mette in discussione e ci costringe a cercare un difficile equilibrio tra emotività, empatia e professionalità. La parola “incontro” fa da perfetta sintesi a queste considerazioni. Più che le parole “accoglienza”, talvolta così assistenzialista, e persino di “integrazione”. Parliamo di incontro. Incontrarsi in un punto non definito, in un momento incerto del proprio percorso. Incontrarsi e lasciarsi, con la consapevolezza che il proprio cammino porta altrove, ma che quell’incontro è stato necessario per arrivarci. Ha scritto Fabrizio De Andrè in “Giugno ’73”: Poi il resto viene sempre da sé / i tuoi “Aiuto” saranno ancora salvati / io mi dico è stato meglio lasciarci / che non esserci mai incontrati.