di Giulia D’Arrigo, Educatrice, Area Persone Straniere

Pubblichiamo volentieri l’intervento che Giulia ha sviluppato nel workshop di confronto tra enti sociali tenutosi in occasione di “Mondo in Pace – Fiera dell’Educazione alla Pace” (29 novembre/3 dicembre), promosso dal Laborpace Caritas Diocesana di Genova. Titolo di questa 12° edizione: “Farsi prossimi nel tempo delle relazioni virtuali”.

La prossimità è invadente, invasiva, diventa parte di te prima che tu te ne accorga. È trovare l’interruttore in ufficio quando la luce è spenta, riconoscere l’odore di ogni stanza, del the a colazione nel centro per persone rifugiate, del caffè solubile in dormitorio. È riconoscere le persone dall’andatura o dalla voce quando al citofono rispondono “Io”, come si fa in famiglia, anche se è una famiglia di 70 persone. La prossimità è dolorosa, è uscire dalla Questura e farsi offrire una sigaretta per dimenticare le facce di chi ha ritirato l’esito negativo della commissione, è non poter accogliere una persona e passare la notte sveglia, ad ascoltare la pioggia e pensare, pensare e ripensare se si è fatta la cosa giusta. Quando impari la prossimità non riesci più ad essere indifferente. Leggi del clochard trovato senza vita su una panchina, dell’ennesimo naufragio a largo di Lampedusa e non sono più un insieme indefinito di facce e corpi, ma diventano volti, storie, sentimenti.

Mi sono presa un po’ di tempo lontano da tutto e tutti e mi sono fermata a riflettere su chi sia davvero il prossimo. Mi è venuto in mente l’inizio del mio percorso con le persone malate di AIDS, le infinite partite a carte, quasi tutte perse, i giorni in cui dimenticavamo noi stessi con un gelato in spiaggia, anche quando faceva freddo, le confidenze, le frasi lasciate sul diario di bordo senza una firma, i momenti a cercare parole introvabili e a ricacciare indietro le lacrime. Poi ho pensato al dormitorio di prima accoglienza. Cinque notti a settimana, un letto a castello in un ufficio pieno di schiuma da barba, zucchero e caffè, i rumori oltre quella porta. Storie, persone e personaggi che si avvicendano di quindici giorni in quindici giorni. Qualcuno sparisce, lascia un ricordo fragile come le foglie d’autunno. Uno mi ha lasciato una felpa, ha detto che a forza di vedere gente le storie e i nomi si cancellano, che avere qualcosa da toccare aiuta a ricordare: a volte la rimetto e mi ritornano in mente tante cose, forse è una felpa magica.

Da un anno e mezzo lavoro in un centro per rifugiati e richiedenti asilo. Mentre sto scrivendo questo pezzo un ragazzo mi chiede un colloquio, dice che torna in Iran, vuole riabbracciare sua madre dopo dieci anni. Dice che è contento di questo tempo con noi. Ritorno a scrivere e lo schermo è un po’ appannato o magari ho gli occhi lucidi. Qui gli addii sono bruschi e frequenti, vele che si strappano. Chi ritorna a casa, chi tenta la fortuna altrove, spesso si parte alla chetichella, prima dell’alba, senza salutare. Ritrovi un letto vuoto, qualche oggetto, tanti ricordi. Le partenze ti rivoluzionano la mente, la vita. L’idea del mettere radici, inculcata fin dall’infanzia, adesso sembra perdere consistenza. Forse non esistono radici, ma soltanto luoghi in cui stare bene e lasciare un po’ di sé. Qui, nelle storie che arrivano da lontano e che sanno di sabbia e jinn del deserto, la prossimità è nei colloqui, nelle uscite, nell’insegnarsi a vicenda parole sconosciute, imparare a salutare in tante lingue diverse. Ci conosciamo nel cibo, nel loro piccante e nella nostra pasta, negli strafalcioni, nel tempo che passiamo insieme e ci vediamo crescere e cambiare. A volte qualcuno ti regala una pagina della sua vita e delle sue emozioni, racconta le prime cotte, ti porta timidamente a vedere la pagella, si offende ed esce sbattendo la porta e, qualche volta, ritorna.

La prossimità è anche con i colleghi, i responsabili, i volontari, le persone che in qualche modo condividono con te il tempo e lo spazio. Qui la prossimità è delicata, fatta di fiducia reciproca. Ci si abitua alla convivenza quotidiana, agli scherzi, alle battute, ai confronti e agli scontri, al disordine perenne sulle scrivanie, ai momenti di sconforto, ad essere insieme nelle situazioni di emergenza. Allora la prossimità è anche piacevole, rivoluzionaria, scuote le fondamenta e costringe a diventare qualcosa di nuovo, ad osservare il mondo da un punto di vista a cui non avevi mai nemmeno pensato.

E alla fine ho capito, o forse sto ancora cercando di capire, che il prossimo non è il malato di AIDS o la persona senza dimora o il rifugiato o il collega che condivide con te le fatiche quotidiane. Il prossimo sei tu. Perché in ogni persona a cui ti avvicini, quando sorridi, ti metti in ascolto ed entri in punta di piedi nel suo mondo, riconosci che proprio quel prossimo che sembrava così diverso perché ha cicatrici che tu non hai, veste di stracci o ha la pelle nera, è soltanto un’altra delle tante vite che avresti potuto vivere, un altro pezzo di te che nel momento in cui lo incontri ti rende un po’ più ricco e consapevole.

foto © fio.PSD - WS Homelessness

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