Com’era nelle attese, l’incontro con P. Mauro Armanino, lunedì 23 Settembre a Casa della Giovane, non ha lasciato il pubblico come lo ha trovato. C’è sempre uno scarto nella sua testimonianza, uno spiazzamento. A tema, le persone migranti e le rotte migratorie viste dal Sud del mondo, “la parte giusta”, chiarisce subito il missionario SMA – Società Missioni Africane, che da quasi nove anni vive in Niger (lo stesso paese in cui è stato rapito un anno fa il suo confratello P. Gigi Maccalli e di cui non si hanno ancora notizie). La parte giusta è quella a cui l’uditorio non appartiene, per mille motivi storici, sociali e personali. P. Mauro non punta il dito, non gli interessa condannare ma che gli occhi si aprano ed inizino a guardare le cose dalla prospettiva corretta. La descrizione del quadro è senza sconti. Mentre sembra distruggere la speranza, la testimonianza di P. Mauro in realtà riconsegna l’uomo alla sua fragilità, “al suo essere un pugno di sabbia impregnato di Spirito”. L’esposizione alla precarietà del vivere, alla possibilità della morte è la condizione manifesta di moltissimi africani e la realtà sublimata di moltissimi occidentali. Eppure è da questa sabbia – o cenere – che può rinascere la nostra umanità.
Per testimoniare, P. Mauro prende a prestito alcune parole guida, tutte con la lettera P.
Privilegio: “Io sono un privilegiato perché posso guardare il mondo dalla parte giusta, dalla parte dei poveri. Non è la stessa cosa guardare il mondo da Niamey, capitale del Niger, o dall’Italia, da Genova, da Albaro o dal Centro Storico. Scegliere da dove guardare il mondo dice in che modo lo guardiamo. Scegliere da dove guardare il mondo è la prima scelta da fare.”
Passione: “Da dove vengo io passione significa due cose molto concrete. La prima: passione come sofferenza, violenza, rapimenti, emigrazioni, carestie, bassa aspettativa di vita, alta probabilità di morte. La seconda è il suo opposto: passione come coinvolgimento e adesione profonda al cammino di un popolo, adesione profonda alla vita. In Niger, nel Sahel, in Africa non abbiamo paura di vivere come invece l’abbiamo qui. La vita non va barricata da qualche parte: è fatta per essere donata. Gli africani la donano, si espongono alla morte, alla povertà, alle migrazioni terribili per affermare la vita.”
Provocazione: “Da quelle terre ci arrivano diverse provocazioni al nostro modo di vivere e comportarci, come società, come Stati. La loro povertà e sofferenza, la loro morte nel viaggio, il loro sbarco sulle nostre coste, sono una provocazione al nostro sistema di controllo, per garantire i pochi che hanno tanto e tenere lontani i tanti che hanno poco o nulla. Sono una provocazione al sistema con cui rapiniamo le loro risorse naturali e alimentiamo le loro guerre, al fine di mantenere il nostro modello di sviluppo, quelle stesse guerre che, oltre ai morti, generano migliaia di persone migranti. Questa gente vuole un futuro migliore, vuole avere le stesse nostre possibilità, sedersi alla nostra stessa tavola e noi non lo possiamo accettare. Sono una provocazione persino al nostro inverno demografico, alle nostre società invecchiate, con la loro giovane età e, ancora di più, con il loro lasciare fluire la vita e fare figli. Spesso, da questo nostro mondo occidentale, c’è chi mi chiede di spiegare loro di non mettere al mondo figli che non possono mantenere. E’ una domanda che rivela il nostro modo di pensare e di pensarci.”
Passare: “Le persone migranti devono passare il nostro sistema di frontiere, visibili e invisibili, innalzato per fermarle e selezionarle: fili spinati, muri, centri di identificazione ed espulsione. Filtri che servono per sceglierle, renderle docili e utili al nostro sistema economico. Perché sappiano che sono qui per diventare servi. Saranno sfruttati nei nostri campi o detenuti nelle nostre prigioni per il reato di clandestinità, spinti sulle nostre strade, definiti ‘irregolari, illegali, clandestini’ con un linguaggio armato, che è esso stesso una frontiera”.
Porte: “Possiamo decidere di aprire le porte – e i porti – che abbiamo chiuso, sbarrato. Quelle porte sbarrate a quelli di fuori, rinchiudono per primi noi stessi. In realtà i migranti sono venuti a salvarci, perché sono per noi degli specchi. Non esiste infatti una ‘crisi migratoria’, le migrazioni sono sempre esistite. Esiste invece una ‘crisi della nostra società’. La realtà delle migrazioni è uno specchio in cui sveliamo a noi stessi le nostre chiusure, paure e miserie.”
Di fronte a tutto questo, che speranza rimane? “In questi ultimi anni di permanenza in Niger – risponde P. Mauro – mi è diventata cara l’immagine della sabbia, della polvere. Ne abbiamo tanta in Niger, certi giorni di vento invade ogni cosa. La sabbia è immagine della nostra fragilità. Ricorda quel monito quaresimale: ‘Ricordati che sei polvere’. Ci toglie la sindrome da salvatori del mondo e ci restituisce al nostro limite. Abbiamo smarrito il senso del limite. Per questo abbiamo paura di vivere. Siamo solo pugni di sabbia, ma siamo sabbia abitata dallo Spirito. Ripartire dal nostro limite, dalla nostra fragilità è il primo passo per non perdere la speranza. Una speranza fragile, come i castelli di sabbia, da rinnovare ogni giorno. Se non avessi speranza non sceglierei di stare in terra di missione. E tu che sei qui, da questa parte del mondo: cosa puoi fare per coltivare speranza? Primo: scegli da dove guardare il mondo, inizia a cambiare il tuo sguardo: uno sguardo trasformato può trasformare la realtà. Secondo: scegli di informarti e formarti, scegli fonti dirette e corrette. Terzo: scegli di vincere il senso di impotenza perché è un falso: puoi fare molto se inizi a giocarti nelle relazioni, ad ascoltare l’altro, a rispettarlo con tutta l’attenzione che merita“.