di Emanuele Barisone
direttore

Sono convinto che il Monastero sia un fattore di pace e che don Piero Tubino  sia stato operatore di pace non solo intervenendo in contesti internazionali di guerra, povertà, emergenze ma favorendo pratiche comunitarie di giustizia e condivisione nella nostra diocesi, nei nostri quartieri.

Ecco perché sabato 15 novembre abbiamo chiesto al nostro vescovo Marco di benedire la “Casa della Pace” che avvieremo al Monastero e perché l’abbiamo intitolata a don Piero. Ecco perché lo facciamo in occasione della Giornata Mondiale e Giubileo dei Poveri. Perché, per il Vangelo, pace e poveri sono strettamente collegati.

Se vogliamo impegnarci per una pace tra i popoli, infatti, dobbiamo lavorare anche sulle nostre relazioni, sulle povertà di cui non ci occupiamo, sulle esclusioni sociali che tolleriamo, sui conflitti che non sappiamo gestire, sulla società che vogliamo.

Dobbiamo disarmare le nostre azioni e le parole, come chiede papa Leone, aprire brecce nei nostri muri, riconoscerci, occuparci gli uni degli altri, riscoprirci fratelli e sorelle tutti e tutte, per citare Papa Francesco.

La Casa della Pace vorrà essere un luogo e un’occasione dedicata a persone, gruppi, realtà associative per sperimentare percorsi di pace e riportarli a casa, nei nostri territori, nelle nostre parrocchie.

Avviando il Monastero, Casa Nostra, il CAE, come si chiamavano allora le nostre strutture dedicate alle persone senza dimora, con Hiv-Aids, extracomunitarie, don Piero non volle chiudere i problemi dentro centri appositi ma, semmai, aprire la società alla fraternità. Volle gettare semi di pace e giustizia evangelica nelle nostre scelte quotidiane.

Vogliamo anche oggi fare scelte e assumere stili di condivisione, giustizia, comprensione e farli fiorire nel quotidiano. “Saper fiorire dove Dio ci ha seminati“, diceva don Giovanni Nervo, primo presidente di Caritas Italiana e amico fraterno di don Piero.

Se vogliamo la pace, prepariamo qui e ora persone di pace