di Gigi Borgiani, direttore
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L’Avvento ci ha proposto alcuni imperativi che non sono certo un ritornello tradizionale ma sono le tappe di un cammino che nel Natale trovano la sostanza del nostro essere credenti. Un crescendo che, passando dall’esame di coscienza, da un impegno coerente, arriva alla gioia. Quella gioia che si fa accoglienza.

Ecco: accoglienza! È una parola molto ricorrente di questi tempi. Si parla di accoglienza di persone profughe, di persone senza dimora che ricorrono alle nostre strutture soprattutto ora che fa freddo. Ma dove trova radice questa parola? La risposta la troviamo proprio nel Natale, nel tempo in cui passiamo dal desiderio, dall’attesa all’accoglienza del Figlio che diventa uomo e Fratello. Accogliere, fare spazio a Gesù è un po’ come acquisire un marchio di qualità: la qualità della vita cristiana. Ma per fare questo dobbiamo mettere da parte atteggiamenti mossi da una tenerezza emotiva legata al Bambinello che nasce nella mangiatoia in situazioni di criticità e precarietà, alle tradizioni, alla festosità deviata, al contesto culturale quasi magico che rischia di incantarci, distrarci ma che, di contro, può aiutarci a recuperare il vero senso della festa. Dobbiamo entrare, attraverso gli imperativi verbali citati sopra, in sintonia profonda con il mistero dell’incarnazione, lasciarci illuminare da una sorgente che cambia la vita nostra e quella delle nostre comunità.

Si tratta quindi di accogliere un Bambino che cresce, che diventa adulto ed esigente; si tratta di accogliere il dono della fede, farla crescere e viverla seguendo le indicazioni di Colui che si fa uomo per “restare accanto”. Imparare l’accoglienza di Maria che risponde “sì” all’angelo, l’accoglienza di Giuseppe che sente la responsabilità di essere attore silenzioso della salvezza. Il Natale così diventa maturità cristiana, fede vissuta che si traduce nella bellezza di essere chiesa. Chiesa aperta, disponibile all’accoglienza dell’altro senza paure e senza pregiudizi; con quella fiducia che si fa compagnia e speranza. Così nel Natale trovano radice i buoni sentimenti che esso suscita anche nelle persone più semplici. La gioia acquisita si trasforma in dono, in reciprocità, in gratuità.

Accoglienza, quindi, non è parola riferita a gesti straordinari ma segno di quotidianità. Non solo disponibilità ad aprire le porte ma anche capacità di accogliere fenomeni e questioni nella loro portata. Capacità di farsi carico, di prendersi cura non solo di una parte, del momento presente, ma di tutto ciò che riguarda l’umanità con uno sguardo ampio: ciascuno di noi deve farsi piccolo, bambino per essere accanto ai “piccoli” fragili e soli delle nostre strade e diventare grandi insieme.

Ci si prodiga per tante situazioni di fragilità, di disagio. Ne abbiamo citato due qualche riga sopra. Ma se oggi – Natale – è festa, deve essere festa anche domani. La persona che accogliamo deve poter trovare il sorriso di oggi anche domani! Per questo occorre davvero vigilare, porre attenzione alla realtà sociale per cambiare (a partire dalla nostra conversione), per fare in modo che molti, tutti possano rallegrarsi. Accogliere “con i fatti e non a parole”, come ci ha ricordato di fare Papa Francesco anche con la recente Giornata Mondiale dei Poveri; accogliere e non restare a guardare chi accoglie, chi si spende nelle relazioni e nello stare con i più fragili, gli esclusi, quelli che continuiamo a definire “poveri” ma sono il prodotto di una società indifferente ed egoista, intellettualmente povera, individualista e spesso anche prepotente. Ad essa dobbiamo opporre una resistenza attiva e propositiva, fatta non solo di buone azioni e di gesti concreti e continui, ma di vera e “globale” attenzione e cura della casa comune e della gente comune.

(Nella foto, un particolare del Presepe realizzato dai Volontari per l’Auxilium nella cappella del Monastero dei SS. Giacomo e Filippo)