di Ivana Pozzoli, psicologa

Vi racconto la mia esperienza di lavoro, del tutto soggettiva ed emotiva, con i rifugiati e gli operatori dell’Area Persone Straniere di Auxilium. 3 anni fa ho iniziato a frequentare come volontaria il centro di via Gagliardo. Conduco con loro un gruppo settimanale di condivisione e di sostegno insieme ad Alessandro, che è un operatore della Coop. Soc. Il Melograno, che coadiuva Auxilium. Una volta al mese incontro anche gli operatori per un gruppo di supervisione. Il Centro ospita ottanta giovani rifugiati, provenienti dall’Africa, Afghanistan, Pakistan.

Quando mi hanno fatto la proposta di lavorare in questo centro, ho accettato senza tanto pensare. Non avevo idea di cosa avrei fatto e cosa avrei trovato: ero contenta di poter far qualcosa per le persone che hanno bisogno. Sentivo anche il fascino misterioso che esercitano su di me le persone che hanno la forza di andarsene dalla loro terra per ricominciare una nuova vita in un luogo lontano. Pensavo che avrei trovato persone bisognose con una vita spezzata, traumatizzate, alla ricerca di un aiuto per ricominciare. In parte è così, ma non del tutto.

È questo punto che voglio sottolineare, quel ‘non del tutto’, perché ha cambiato il mio modo di guardare queste persone e necessariamente sono cambiata anche io con loro. I giovani rifugiati vivono nel centro in attesa del permesso di soggiorno per un periodo di tempo non definito, che può andare da sei mesi a due anni e più. Poi se ne vanno. Se ne vanno comunque, sia che abbiano avuto il permesso sia che non l’abbiano avuto. Sono di passaggio…

Questa è una delle prime emozioni che mi sono arrivate addosso. ‘Sono di passaggio’. I primi tempi mi affannavo a ricordare i nomi, i volti dei ragazzi. Se una settimana c’erano sette ragazzi nel gruppo, la settimana successiva se ne presentavano la metà o nessuno: era un gruppo sempre diverso e loro cambiavano sempre. Mi sentivo confusa e incerta. Ero in un fiume in piena che non potevo controllare e che era pesante sostenere emotivamente. Avevo la sensazione di non riuscire a costruire qualcosa che potesse mettere radice. Mi sentivo impotente e pensavo che il mio lavoro fosse inutile. Ero in completa sintonia con gli operatori; anche loro erano in affanno e combattevano contro la sensazione di inutilità e di vuoto.

La realtà è che questi ragazzi sono in cammino. Non vedono l’ora di andare via e di avere un lavoro, di andare a vivere in una casa, di avere una famiglia, di andare in un altro paese! Di avere una vita propria autonoma. Ho pensato che in realtà la delusione che sentivo era soprattutto la necessità di un mio cambiamento. Mi ero avvicinata senza pretendere di capire la complessità che avevo davanti ma la complessità mi era arrivata addosso e mi faceva sentire la necessità di un cambiamento nel mio modo di pensare. Mi sono resa conto che li stavo mettendo nella categoria “rifugiati bisognosi”. In una categoria, appunto. È vero che loro hanno bisogno di tante cose materiali, pratiche: però il bisogno più forte, la vera sfida per noi e per loro è riconoscere l’altro come persona. Questo riconoscimento è possibile solo in una relazione.

Noi possiamo accompagnarli per un pezzetto della loro strada, è solo un accompagnamento temporaneo, ma possiamo dare loro una cosa fondamentale, che va al di là delle cose materiali: riconoscerli ed essere riconosciuti come persone. La sfida è questa. Non sono solo persone spezzate e traumatizzate, sono persone che con il loro sogno e lo slancio di coraggio a ricominciare una nuova vita ci danno qualcosa che è vitale. Anche la loro fragilità, oltre al sogno, ci può dare una maggiore umanità. 


Ascolto nel gruppo. Nel gruppo ascolto le loro storie. C’è una gran fatica a capirci. Per la lingua, ma non solo. C’è timore di avvicinarci, la vergogna, le differenze incolmabili. Sono storie dolorose, non ci sono tutte le parole per descriverle, si possono solo accennare. Storie spezzate dal viaggio, dove la dignità della persona è scossa alla radice. È una deportazione, dove sono trattati come prigionieri, stremati dalla fame e dalla sete, feriti dalla morte degli amici e dei compagni di viaggio. Le notti sul barcone, il buio, il freddo, il pianto dei bambini. E poi l’arrivo, lo stordimento di essere vivi, ma anche lo smarrimento di non sapere più chi sono, forse, penso io, anche la spersonalizzazione di essere diventati la categoria dei rifugiati. Ma ci sono anche le storie della vita prima del viaggio, il villaggio, la mamma, il padre, la religione, storie molto differenti dalla mia, dalle nostre… Mi chiedo: riesco a farmi toccare dalle differenze? Posso chiedere loro di farsi toccare dalle mie differenze?


La relazione è fondamentale. Un giorno, nel gruppo, si crea un’atmosfera di scherzo e di gioco con uno dei ragazzi che vorrebbe incontrare una ragazza e invitarla a uscire. Scherziamo mentre lui si schernisce, dice che ha tanti pensieri, si piega in avanti e passa le mani sulla testa come per scacciarli via… ‘Non posso avere una ragazza finché non ho il permesso di soggiorno e il lavoro’. Io commento che capisco e dico: ‘È vero il permesso di soggiorno è la cosa fondamentale’. Ma un altro ragazzo mi interrompe e dice in modo perentorio: ‘No, anche la ragazza è fondamentale. È il sogno’. Sono ricascata nell’usare le categorie, quelle del bisogno. Lo stare in relazione con l’altro scuote le nostre certezze, le nostre sicurezze, è più rassicurante sentirsi quelli che non hanno bisogno mentre loro hanno tutti i bisogni. Così non vedo la cosa fondamentale, il bisogno della relazione.