di Gigi Borgiani
direttore

Capire che cosa Dio ci stia dicendo in questi tempi di pandemia diventa una sfida anche per la missione della Chiesa. La malattia, la sofferenza, la paura, l’isolamento ci interpellano. La povertà di chi muore solo, di chi è abbandonato a sé stesso, di chi perde il lavoro e il salario, di chi non ha casa e cibo ci interroga. Obbligati alla distanza fisica e a rimanere a casa, siamo invitati a riscoprire che abbiamo bisogno delle relazioni sociali e anche della relazione comunitaria con Dio. Lungi dall’aumentare la diffidenza e l’indifferenza, questa condizione dovrebbe renderci più attenti al nostro modo di relazionarci con gli altri. E la preghiera, in cui Dio tocca e muove il nostro cuore, ci apre ai bisogni di amore, di dignità e di libertà dei nostri fratelli, come pure alla cura per tutto il creato. L’impossibilità di riunirci come Chiesa per celebrare l’Eucaristia ci ha fatto condividere la condizione di tante comunità cristiane che non possono celebrare la Messa ogni domenica. In questo contesto, la domanda che Dio pone: «Chi manderò?», ci viene nuovamente rivolta e attende da noi una risposta generosa e convinta: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). Dio continua a cercare chi inviare al mondo e alle genti per testimoniare il suo amore, la sua salvezza dal peccato e dalla morte, la sua liberazione dal male (cfr Mt 9,35-38; Lc 10,1-12).” Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2020

L’isolamento forzato, uno dei prodotti della pandemia, è stato per molti occasione da non perdere per pensare e ripensarsi. Molti hanno capito che non si è trattato solo di difendersi da un contagio ma hanno colto l’evidenza di tanti aspetti della vita che non possono, non devono tornare più come prima. Certamente è necessario recuperare una vivibilità sostenibile ma questa presuppone la riscoperta di valori umani essenziali senza i quali si ricade nel “come prima” e senza dubbio “peggio di prima“, perché il Coronavirus ha accentuato soprattutto l’impoverimento e le disuguaglianze ma anche il bisogno di relazioni più vive, dirette, convergenti.

La riflessione si sposta, per noi credenti, su come abbiamo cercato di capire – come scrive il Papa –  qualcosa di più dalla pandemia, qualcosa che non sia solo il sopportare il momento difficile e come uscirne ma come uscirne in quanto Chiesa. Il tempo della pandemia è stato ed è tempo di riflessione, di recupero, di consapevolezza?

Come Chiesa, come singole comunità cristiane, come parrocchie ci chiediamo cosa ci ha insegnato la pandemia, cosa ne abbiamo capito, cosa dobbiamo cambiare? Non è possibile tornare, come prima, alle nostre liturgie, alle nostre buone opere, ad una normalità religiosa nella quale si pensava di stare bene, concittadini di una società avanzata ricca di diritti, di progresso, di stili di vita improntati all’uso e al consumo e mascherati da gesti di solidarietà che, anche in questo tempo, non sono mancati ma stentano a divenire una responsabilità solidale, continua, incisiva.

L’eco della solidarietà è risuonato forte e diffuso ma ora occorre fare i conti con quelle fragilità, con quelle vulnerabilità e disuguaglianze rese ancora più evidenti dalla pandemia. Non è stato e non è sufficiente resistere: dobbiamo trasformarci e trasformare. Si sente dire che il contagio è diminuito, che il virus ha perso carica, che l’isolameto è servito. Bene, ma non basta, non si può voltare pagina dimenticando soprattutto tutti coloro che rischiano di restare indietro, di rimanere esclusi.

Le nostra comunità/ parrocchie non possono trovare consolazione nelle liturgie ritrovate o in tutto quello che è stato possibile fare nella fase acuta della pandemia.

“«Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: “Siamo perduti” (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme» (Meditazione in Piazza San Pietro, 27 marzo 2020). Siamo veramente spaventati, disorientati e impauriti. Il dolore e la morte ci fanno sperimentare la nostra fragilità umana; ma nello stesso tempo ci riconosciamo tutti partecipi di un forte desiderio di vita e di liberazione dal male. In questo contesto, la chiamata alla missione, l’invito ad uscire da sé stessi per amore di Dio e del prossimo si presenta come opportunità di condivisione, di servizio, di intercessione. La missione che Dio affida a ciascuno fa passare dall’io pauroso e chiuso all’io ritrovato e rinnovato dal dono di sé.”

Leggere oggi il Messaggio predisposto per la Giornata Missionaria Mondiale 2020 non è solo arricchimento ma è prospettiva, è guardare avanti e soprattutto è cogliere il costante invito alla missione di Papa Francesco. Un invito che deriva da una vocazione, da un dovere che non può essere chiusura. La celebrazione eucaristica “sospesa” per qualche tempo dalla nostra vita deve farci comprendere e spingere verso un nuovo modo, missionario, di fare Eucaristia con gli altri; di essere quel pane spezzato che da un lato è offerta essenziale di sostegno a chi ha fame e dall’altro è richiamo ad unità, ad inclusione, a non considerarci dei privilegiati ricchi di doni non condivisi.

L’emergenza ha evidenziato tanti gesti di solidarietà. Siamo stati tutti coinvolti. In Fondazione Auxilium abbiamo ricevuto tante  “provvidenze” ma il domani, che è già oggi, richiede lo sforzo dell’incontro, delle relazioni, del dialogo, del costruire, del camminare insieme. Già vediamo segni contrastanti. Il virus, il distanziamento evocava unità, ma all’orizzonte ci sono “normalità” che invece di aprire ad una rinnovata convivialità riaprono alla incomprensione, allo scontro, alla esclusione. Non possiamo permettere che a pagare siano sempre i più fragili, i già esclusi quelli che normalmente sono scartati.

Perché non bastano le nostre buone azioni o buone intenzioni, i nostri principi e i valori dichiarati, non possiamo aspettare che altri prendano provvedimenti o iniziative che potranno anche sanare qualche situazione. Se non si creano gli spazi e luoghi delle relazioni, della vicinanza, della comprensione, del prendersi cura, dovremmo sentirci responsabili del permanere delle vulnerabilità, delle esclusioni, della disuuaglianza. Occorre creare le condizioni del cambiamento missionario nelle nostra comunità/parrocchie, creare reti comunitarie capaci di testimoniare quello in cui credono, quella da cui dicono di derivare perché non si tratta solo di promozione umana ma di evangelizzazione.

Come Chiesa, se abbiamo capito, abbiamo il dovere di “uscire” per offrire gratuitamente ciò che abbiamo ricevuto. Il digiuno eucaristico che abbiamo vissuto è solo nostalgia, perdita di qualcosa che ci caratterizza e di cui abbiamo bisogno o ci ha fatto capire che non possiamo restare chiusi nei cenacoli, al riparo dalla sventure?

«La missione, la “Chiesa in uscita” non sono un programma, una intenzione da realizzare per sforzo di volontà. È Cristo che fa uscire la Chiesa da se stessa”.

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Foto: Mateus Campos Felipe – Unsplash