di Gigi Borgiani
direttore

Oggi come non mai, in tempo di pandemia, il Natale sembra restringersi ad una visione di consumo, di spreco, di festa (d’accordo anche familiare) più fine a sé stessa che non per celebrare e condividere un punto di forza della vita. Il bambinello forse fa ancora tenerezza ma è meglio che non cresca, che resti nella sua mangiatoia mentre noi siamo tutti intenti a salvare i nostri cenoni, le nostre spese, le luci che illuminano e decorano, fanno bello (solo di giorno) e si spengono lasciando poi tutto come prima. 

Forse dovremmo chiederci se davvero il Natale può illuminare la quotidianità. Forse è il credente che, anche a partire dal momento di buio creato dalla pandemia, dovrebbe chiedersi perché, in un paese che ancora si definisce cattolico, la presenza del Dio fatto uomo diventa sempre più marginale. Forse perché siamo abbagliati e disorientati dalle luci e dai canti sirenici che materializzano la vita e che anche a noi fanno perdere di vista i veri significati, tanto che ci lasciamo condizionare anche dalla malinconia della messa di mezzanotte.

Dovremmo chiederci se tutto il clamore suscitato attorno ad un Natale ristretto, quasi penitenziale, fatto di lamenti, di privazioni non dovrebbe trasformarsi in una occasione per riprendere significati che fanno il vero bene a tutti, a tutta l’umanità. Già, perché il Natale dovrebbe essere per tutti, dovrebbe assumere quel significato di fraternità universale che supera egoismi, individualismi e indifferenze. Nei giorni in cui si è levato il rumore sugli orari delle messe, ho letto un articolo relativo alla condizione dei cristiani perseguitati in molte parti del mondo. Che Natale sarà il loro? Che Natale sarà per i 400 ragazzi dispersi dopo un attacco militare in Nigeria? Che Natale sarà per chi fugge da paesi violenti e ingiusti? Se poi guardiamo in casa nostra, che ne è del pianto di tanti, troppi morti, troppe persone e famiglie addolorate e sole?

Per non parlare della povertà incalzante alla quale possiamo porre rimedio non solo se pensiamo agli ultimi e agli ultimissimi ma anche se ci sforziamo di dialogare con i “primi”, con quelli che “almeno a Natale siamo tutti più buoni”, con quelli però che la normalità è “mi faccio i fatti miei” o “non sono fatti miei”… Altro che fraternità! Se pensiamo che la nostra santa messa non sia un rito, una tradizione (pur sempre condita da sinceri segni di attenzione e solidarietà per grazia di Dio sempre molto forti ed incisivi) la dobbiamo trasformare in una presenza permanente orientata alla fraternità. La fraternità che è il contrario dell’indifferenza, del mettere sé stessi al centro, della ricerca individualista, dell’autoaffermazione a tutti i costi, della competitività, a volte anche della autogiustificazione.

La fraternità è la via della quotidianità, il frutto di un impegno costante che, giorno dopo giorno, rimuove ostacoli, difficoltà, incomprensioni e manda avanti il bene, la costruzione di relazioni vere, la promozione della giustizia e della dignità di tutti. La fraternità è vivere il presente in condivisione per costruire il futuro.

In questi mesi nei nostri “cantieri” di accoglienza e vicinanza ci siamo detti più volte: basta parlare di emergenze, di solidarietà intermittente, di appalto assegnato agli addetti ai lavori. Assistiamo in questi giorni ad una sorta di gara di solidarietà. Meglio che niente ma dobbiamo andare oltre: trasformare la solidarietà in fraternità, passare dalla sensibilità, da gesti buoni e sporadici ad una permanenza nell’insieme, nella condivisione.

Ci sono questioni che riguardano tutti, questioni vicine e lontane che richiamano la responsabilità di tutti i cittadini che, se sono cristiani, hanno un responsabilità in più. Una responsabilità comune, per il bene di tutti, “nessuno escluso”. Quando usiamo questa espressione non ci riferiamo solo ai bisogni più eclatanti ma davvero a tutti. Ci sono tante persone escluse (per la cui inclusione ci adoperiamo perché sono questioni di giustizia, di diritti) ma anche tante altre – che possiamo definire distratte, superficiali o semplicemente meno informate – che dobbiamo cercare di includere nei processi di cambiamento sociale.

La fraternità quindi è la trama dell’incontro con gli altri, la via dell’andare verso gli altri. Verso tutti gli altri. I più vicini e i più lontani, quelli della mia comunità e quelli del mondo intero, i più “facili” e i più “difficili”. Per questo diventa urgente l’assunzione di responsabilità fraterna per aiutarci a prendere le distanze dalla cultura del consumo, del profitto, dell’indifferenza, dello scarto e a intraprendere vie di dialogo, di nuova socialità capaci di generare condizioni di equità, di rispetto, di pace.

Quella pace che sembra così distante nonostante i bagliori e i sentimenti di un Natale pieno di desideri e di regali ma vuoto di senso.

(foto: Thomas De Luze – Unsplash)