Questo fine settimana racchiude due importanti “Giornate”, la Giornata Mondiale ONU di lotta alla povertà, sabato 17 Ottobre, e la Giornata Europea contro la Tratta, Domenica 18 (vedi: osservatoriointerventitratta.it). Appuntamenti simbolici ma non per questo senza concretezza: portano in sé l’esistenza delle persone senza dimora, delle famiglie in difficoltà, di donne e uomini spesso minori usati come schiavi e ci ricordano l’opera di persone, comunità, enti – tra cui molte realtà cattoliche – che camminano al loro fianco.

Le due Giornate, inoltre, sono l’occasione per richiamare un impegno più generale e diffuso che, come sempre, rappresenta la sola risposta efficace: se è vero infatti che il coinvolgimento più diretto e competente può essere sostenuto, insieme al soggetto pubblico, dagli enti di carità e del terzo settore, solo l’esistenza di una società che non delega e di comunità aperte può fare la differenza, tanto più in questo tempo di pandemia. Il Covid ha reso più difficile ogni relazione: il distanziamento sociale, così pesante nella “normalità”, rischia di diventare un baratro per chi già vive emarginazione e segregazione.

Nel corso della pandemia i servizi di Auxilium non hanno mai cessato di operare, pur con profonde ristrutturazioni pensate per centrare un doppio obiettivo: continuare a stare, malgrado tutto, con chi ha bisogno; limitare al massimo le occasioni di contagio. A questo riguardo, nelle scorse settimane si sono registrati alcuni casi positivi tra le persone accolte, individuati, isolati e, trascorsi i giorni di quarantena, ormai risolti.

Dall’inizio della pandemia ad oggi tali circostanze sono state numericamente esigue grazie allo spirito di servizio degli operatori sociali della Coop. Soc. Il Melograno e dei Volontari per l’Auxilium che, in silenzio e spesso senza ribalta, hanno rappresentato un argine contro la pandemia e un ponte verso le persone accolte. Di questo parla l’intensa testimonianza che segue: testimonianza di chi vive ogni giorno una Giornata Mondiale ed Europea, contro l’esclusione e per la persona, malgrado tutte le limitazioni di questo tempo.

 

La flessibilità è una barriera che cade

di Giulia D’arrigo

Coop. Soc. Il Melograno

Oggi ripenso ad un momento, vissuto qualche anno fa, quando ho firmato il contratto a tempo indeterminato. Mi è stato chiesto, ricordo, di essere flessibile. Disponibile a cambiare contesto, utenza. Ho risposto che non era un problema, stavo imparando che il lavoro da educatore ti mette a confronto ogni giorno con un lato diverso di te stesso, riflesso in ogni persona che incontri. Solo ora, seduta su un furgone che da qualche giorno è diventato un ufficio, con il cruscotto che brulica di carte, monete, ricevute, mi rendo conto di che cosa abbia significato per noi essere flessibili nel 2020.

Prima le leggi che continuavano a cambiare, la sensazione di non avere mai certezze su chi potesse rimanere accolto e chi no, la corsa dietro alle notizie. E poi la pandemia, inaspettata, improvvisa, il tempo che si dilata fino a fermarsi. Il mondo si congela e spiegalo ai ragazzi, che di tempo ne hanno sempre poco. Perché sono giovani, perché la speranza che li ha portati al di là del mare rifiuta la sola idea di rallentare, figuriamoci fermarsi, perché il tempo dell’accoglienza è poco, perché giù c’è una famiglia che ha bisogno, perché camminano curvi sotto il peso delle aspettative e allora, senza neanche accorgercene, ci siamo trovati divisi in due mondi. Noi e loro, dentro e fuori, separati da un metro di distanza, una mascherina, un no ripetuto all’infinito.

Poi la primavera è diventata estate, la speranza ha rifatto capolino attraverso i nostri muri gialli. Uscite, ma poco. E le mascherine, mi raccomando. Abbiamo trovato nuovi modi per parlarci, stare vicini anche da lontano, sorriderci anche solo con gli occhi.

Eppure non c’è stato molto tempo per riposare. L’estate ci è scappata di mano veloce come una promessa non mantenuta, la minaccia del Covid è tornata e questa volta ci ha attaccato da dentro.

E ho capito che essere flessibili significa anche scoprirsi uniti, sentirsi squadra. Essere flessibili significa rimanere al telefono fino all’una dopo il risultato del primo tampone e trovare il coraggio di dirsi: “Ho paura”. Essere flessibili significa ritrovarsi sul piazzale in attesa del test, guardare i dottori bardati come astronauti e chiedersi se davvero sta succedendo a noi, ma essere forti abbastanza da strapparsi una risata. Essere flessibili significa trovarsi ancora ad essere noi e loro, ma peggio di prima: noi fuori, loro dentro. Per parlare si grida, dalle finestre, per superare il rumore del traffico. Ci si arrabbia per quella lontananza, si discute e poi, esausti, si spera solo che finisca presto.

Nel 2020 sto imparando che tra le esperienze di un educatore rientra anche lo scambio di un caffè con il collega esausto che ti dà il cambio, il “dai, a questa telefonata rispondo io”, la voglia disperata di abbracciarsi, di sentirsi un po’ più noi.

Scrivo dal mio nuovo ufficio, un furgone pieno di scartoffie, gel disinfettanti, ricevute. Poco fa mi sono sporta oltre il cancello, ho passato a S. un pacco di zucchero. Mi ha indicato l’ufficio in cui non posso entrare, ha detto:
– Non stare fuori, fa freddo.

Mi è venuto un po’ da piangere, invece ho detto:
– No, ho l’ufficio, il furgone.

E abbiamo riso tutti e due. La flessibilità è una barriera che cade.