di Gigi Borgiani, direttore
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Si è concluso il Sinodo dei vescovi sui giovani. Giovani che chiedono di essere accolti, ascoltati, accompagnati da adulti che siano testimoni credibili del Vangelo. Giovani che desiderano diventare protagonisti della missione della Chiesa, ma la Chiesa deve cambiare. Nel lungo documento finale (167 paragrafi) il Sinodo “riconosce che non sempre la comunità ecclesiale sa rendere evidente l’atteggiamento che il Risorto ha avuto verso i discepoli di Emmaus” e che “prevale talora la tendenza a fornire risposte preconfezionate e ricette pronte, senza lasciar emergere le domande giovanili nella loro novità e coglierne la provocazione” (8). Dovrà cambiare “la pastorale giovanile” della Chiesa cattolica o dovrà (finalmente) cambiare il modo di essere della cosiddetta “comunità”?

A me pare si sia ancora lontani dal modello di quella “Chiesa in uscita” (ovvero missionaria) di cui scrive Papa Francesco nella Evangelii Gaudium e che ancora si torni a parlare di una Chiesa a temi, a categorie. Il documento finale insiste sull’accompagnamento, l’accoglienza, il discernimento. Propone diffusamente l’immagine di una Chiesa “sinodale, che si apra maggiormente alla condivisione e che veda i ragazzi stessi essere protagonisti della missione evangelizzatrice. Ma esiste la consapevolezza di appartenere ad una Chiesa in missione evangelizzatrice?

Molti i temi affrontati dal documento, che parte innanzitutto dal riconoscere le “diversità di contesti e culture” (13) (ricordiamo che il Sinodo dei vescovi è mondiale e deve tener conto delle specifiche sensibilità ed esperienze del mondo) per passare al tema della “colonizzazione culturale” (14), della famiglia come punto di “riferimento privilegiato” (32). Si parla di migranti (25-28); si scrive di abusi (29), di sessualità (37), di spiritualità (48), di lavoro e di emarginazione, di giustizia sociale. Si parla di tutto un po’ ciò che riguarda i giovani ma non solo loro. Fa riflettere il fatto che venga messa in luce la consapevolezza “che un numero consistente di giovani, per le ragioni più diverse, non chiedono nulla alla Chiesa perché non la ritengono significativa per la loro esistenza. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, poiché sentono la sua presenza come fastidiosa e perfino irritante. Una richiesta che spesso non nasce da un disprezzo acritico e impulsivo, ma affonda le radici anche in ragioni serie e rispettabili: gli scandali sessuali ed economici; l’impreparazione dei ministri ordinati che non sanno intercettare adeguatamente la sensibilità dei giovani; la scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della Parola di Dio” (53). Si coglie una istanza di coerenza, di autenticità.

Una Chiesa che deve cambiare, a mio avviso, deve lasciare le strutture per animare luoghi di vita, di relazione, di reciprocità, di cultura etc. “Come insegna il racconto dei discepoli di Emmaus, accompagnare richiede la disponibilità a fare insieme un tratto di strada, stabilendo una relazione significativa. L’origine del termine ‘accompagnare’ rinvia al pane spezzato e condiviso con tutta la ricchezza simbolica umana e sacramentale di questo rimando. È dunque la comunità nel suo insieme il soggetto primo dell’accompagnamento, proprio perché nel suo seno si sviluppa quella trama di relazioni che può sostenere la persona nel suo cammino e fornirle punti di riferimento e di orientamento. L’accompagnamento nella crescita umana e cristiana verso la vita adulta è una delle forme con cui la comunità si mostra capace di rinnovarsi e di rinnovare il mondo” (92). “L’esperienza comunitaria mette in evidenza qualità e limiti di ogni persona e fa crescere la coscienza umile che senza la condivisione dei doni ricevuti per il bene di tutti non è possibile seguire il Signore. Inoltre offre ai giovani il terreno per proseguire la maturazione della propria vocazione cristiana” (96). Il Sinodo dei giovani è quindi opportunità per ripensare e rinnovare il volto della Chiesa oggi, a partire dalle sue forme più semplici, più incarnate ovvero da quelle comunità che, nel territorio, dovrebbero essere testimonianza del Vangelo e luce per le genti.

Comunità locali abitate da molti volti – si legge al par. 131 -. Fin dall’inizio la Chiesa non ha avuto una forma rigida e omologante, ma si è sviluppata come un poliedro di persone con sensibilità, provenienze e culture diverse.” L’effettiva realizzazione di una comunità dai molti volti incide anche sull’inserimento nel territorio, sull’apertura al tessuto sociale e sull’incontro con le istituzioni civili. Solo una comunità unita e plurale sa proporsi in modo aperto e portare la luce del Vangelo negli ambiti della vita sociale che oggi ci sfidano: la questione ecologica, il lavoro, il sostegno alla famiglia, l’emarginazione, il rinnovamento della politica, il pluralismo culturale e religioso, il cammino per la giustizia e per la pace, l’ambiente digitale. I giovani ci chiedono di non affrontare queste sfide da soli e di dialogare con tutti, non per ritagliare una fetta di potere, ma per contribuire al bene comune” (132). Una Chiesa che si fa casa per essere casa comune, per prendersi cura della casa comune. In un’epoca complessa e di cambiamenti, occorre il coraggio di guardare e cambiare.

Mi si dirà: cosa c’entra tutto questo con Caritas e con Auxilium? C’entra eccome! Perché l’attenzione alle varie forme di fragilità e disagio, di esclusione e indifferenza verso la globalità degli aspetti che riguardano tutta la casa comune, non può continuare ad essere appaltata a questo o a quello, ad una organizzazione o all’altra, agli adulti o ai giovani, agli operatori o ai volontari, agli esperti o ai politici, ma deve essere una convergenza di “cuore”; deve essere non tanto l’azione (le opere a sostegno/vantaggio di qualcuno) ma la vita stessa della comunità. Parlando di poveri, il documento scrive del contributo che i giovani possono offrire per costruire una comunità fraterna e prossima ai poveri, in particolare ai giovani scartati e sofferenti. Non si tratta di fare qualcosa per loro, ma di vivere con loro e questo può essere possibile solo se si da vita a comunità “complesse”. Comunità dove tutto è in relazione, dove la crescita nella fede, la ricerca della verità e di senso, la passione per l’annuncio, le scelte di vita orientate al “noi” sono immagine di vera fraternità evangelica.

Al par. 157, il documento ripropone la realtà della “condizione attuale caratterizzata da una crescente complessità dei fenomeni sociali e dell’esperienza individuale. Nella concretezza della vita i cambiamenti in atto si influenzano reciprocamente e non possono essere affrontati con uno sguardo selettivo. Nel reale tutto è connesso: la vita familiare e l’impegno professionale, l’utilizzo delle tecnologie e il modo di sperimentare la comunità, la difesa dell’embrione e quella del migrante. La concretezza ci parla di una visione antropologica della persona come totalità e di un modo di conoscere che non separa ma coglie i nessi, apprende dall’esperienza rileggendola alla luce della Parola, si lascia ispirare dalle testimonianze esemplari più che dai modelli astratti. Ciò richiede un nuovo approccio formativo, che punti all’integrazione delle prospettive, renda capaci di cogliere l’intreccio dei problemi e sappia unificare le diverse dimensioni della persona. Questo approccio è in profonda sintonia con la visione cristiana che contempla nell’incarnazione del Figlio l’incontro inseparabile del divino e dell’umano, della terra e del cielo.” Mi sembra di rileggere la Laudato si’ (cfr. anche il già citato paragrafo 132). Occorre integrare, occorre saper mettere in relazione. Non esiste un prima e un poi, una formazione e poi l’azione, una questione di giovani e una di adulti, una questione ecclesiale e una sociale. Soprattutto dobbiamo evitare, oggi più che mai, di rimettere mano ad aspetti organizzativi, strutturali; di mettere a tema, a calendario; di progettare interventi ed iniziative specie se non hanno radici in comunità credibili.

Se desideriamo rendere un “servizio” (gran brutta parola!) credo che Caritas ed Auxilium debbano contribuire a costruire comunità non frammentate ma aperte ed integrate dove “i mille volti” siano espressione di un’unica tensione e di un’unica testimonianza.