di Gigi Borgiani
direttore
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Il tappeto rosso (nella forma inglese red carpet) è una striscia di tessuto che veniva (e anche oggi viene) stesa a terra per indicare, ad esempio, il percorso a capi di stato in circostanze ufficiali o per cerimonie formali o in occasione dei matrimoni. Negli ultimi tempi l’uso del tappeto rosso si è esteso anche alle celebrità. Sul tappeto rosso “sfilano” i VIP, per lo più personaggi dello spettacolo, ammirati e idolatrati dal vuoto dei cosiddetti fans, addomesticati da una altrettanto vuota mondanità. Da qualche tempo siamo stati invasi da questa moda-mania del red carpet utilizzato su strade cittadine a spese della tasche dei contribuenti tanto per apparire, per ostentare un benessere che non c’è o forse per illudere, per far sentire vip un po’ di gente illusa. In questi giorni prenatalizi, poi, cresce anche l’eccesso di tappeti nelle vie più importanti per far festa, per abbellire, insieme alle luminarie, le strade dei consumi: i tappeti indicano i negozi “più”, sollecitano regali, ma non indicano certo la strada che porta al vero senso del Natale. Ritorna l’immagine dello “sciame” così ben descritta da Z.Bauman in “Homo consumens”(*).

Sappiamo bene che molto spesso sotto i tappeti si accumula la polvere e la cenere delle sigarette, si annidano acari e si nasconde ogni sorta di elemento fastidioso. Così, calpestando i tappeti rossi della città, non ci accorgiamo che calpestiamo, sotto l’apparenza del bello, le tante realtà che stridono con il Natale. Calpestiamo la dignità di persone che, invece di ricevere un aiuto concreto e permanente da pubblico e privato, vedono spreco; calpestiamo i diritti alla libertà di chi fugge dal proprio paese; calpestiamo le migliaia di persone che in Libia sono schiave di trafficanti e di paesi consenzienti; calpestiamo le migliaia di persone morte in Medio Oriente per le armi che noi abbiamo venduto. Calpestiamo la nostra stessa indifferenza, l’egoismo. Sotto i tappeti rossi nascondiamo e calpestiamo per benino il nostro senso di responsabilità, come se le tante situazioni critiche a livello locale e globale non dipendessero anche da ciascuno di noi; calpestiamo la nostra consapevolezza (meglio non vedere) e la nostra colpevolezza (la colpa è sempre degli altri). Calpestiamo la verità.

Tra tappeti e luci camminiamo frettolosi verso un natale che non c’è. Ma Natale di chi? Celebriamo il Natale di chi è venuto uomo in mezzo agli uomini o celebriamo un uomo che consuma e si consuma senza senso e senza speranza? Perché spesso, dietro alla tradizione del dono e della festa, non vediamo il “vero dono”, quello che davvero illumina la vita di ogni uomo: viviamo l’euforia di un momento, del classico “a Natale siamo tutti più buoni, mettendo poi sotto il tappeto buoni propositi e buone intenzioni con il rischio di finire anche noi sotto il tappeto, calpestati da chi continua a volerci far credere che solo sviluppo e consumo salvano, da chi ostenta una falsa democrazia, da politici populisti, da una mentalità omologante e qualunquista.

Chiediamoci quindi, noi che diciamo di credere nel vero Natale, su quale tappeto stiamo camminando, se è un tappeto sul sentiero che cerca di raddrizzare la nostra vita e prepara la venuta di Gesù o se anche noi siamo incantati dalla mondanità. Se siamo uno sciame che svolazza di qua e di là o se siamo ben orientati sulla via del Vangelo; se seguiamo il consumo o se cerchiamo di consumarci per gli altri, soprattutto per coloro che non solo non potranno mai camminare su un tappeto rosso da VIP (e non è certo questo che sperano) ma non possono neppure camminare dignitosamente nelle vie della nostra città.

(*) “Nella società dei consumi della modernità liquida, lo sciame tende a sostituire il gruppo. Lo sciame non ha leader né gerarchie perché il consumo è un’attività solitaria, anche quando avviene in compagnia. La società dei consumatori aspira alla gratificazione dei desideri più di qualsiasi altra società del passato ma, paradossalmente, tale gratificazione deve rimanere una promessa e i bisogni non devono aver fine, perché la piena soddisfazione sfocerebbe nella stagnazione economica.