di Stefano Neri

Suona il campanello. Vado ad aprire, con il camice bianco necessario in mensa. Accolgo una persona che non ho mai visto. Viene da un’altra regione e ha appena cominciato ad orientarsi sul territorio. Quando gli confermo che potrà usufruire del periodo di “emergenza” (lo chiamiamo così), mi sembra di vedere in lui un particolare senso di sollievo, perché almeno in un posto è arrivato. “Oggi ho camminato tanto – mi dice – i piedi quasi mi fumano.” Eccolo qui, giunto presso un primo punto di riferimento. In sottofondo, i dialoghi delle persone che già hanno terminato il pasto: voci tranquille, anche qualche risata. Si rassicura, lo osservo con discrezione e me ne accorgo. Si siede ad un tavolo occupato da due persone: finalmente qualcosa di caldo dopo aver consumato più che altro panini. Il pasto è completo, abbondante. Persino il lusso di un caffè, come mi dice alla fine del pasto: “Ultimamente mi è capitato piuttosto di rado. Mi sembra familiare, qui: l’ambiente è raccolto, caldo, accogliente.” Cerchiamo di non riempire solo il piatto, perché non sia un semplice atto meccanico. Nella distribuzione di un pasto, operatori e volontari sono invitati a mettere qualcosa di sé, per far sentire più a proprio agio quanti si trovano in situazioni complicate. “Eppure nessuno ancora mi conosce. Ho capito che tanti frequentano da tempo. Io sono nuovo, ma questa distanza non si avverte.” Sorseggia il caffè e si guarda intorno. E penso di indovinare i suoi pensieri: “Forse sono nel posto giusto. Un primo punto di appoggio, attraverso il cibo. Sono rassicurato, rinfrancato. A volte basta un semplice piatto, servito con passione…”

Passano i giorni. Ormai il nuovo (lo chiamerò così) ha tutti i suoi riti. Le sue abitudini. Stesso tavolo, stessa sedia, normalmente anche le stesse persone. È come se si fosse creato un piccolo gruppo, come quelli che inesorabilmente si riuniscono per una partita a carte. Tutto ciò gli dà una forma di sicurezza. Al tavolo parla di tutto, dallo sport alla politica. Dall’attesa per la casa del comune al colloquio con l’assistente sociale. “Io prima non parlavo – mi confida – e neanche mangiavo un granché. Attanagliato da ansie, preoccupazioni, pensieri che non mi abbandonano mai. Persino durante la notte. Ora invece questo tavolo, questo luogo…” Un pasto che è anche simbolico, come un luogo di incontro. Uno spazio ben definito che però va oltre. Credo che la qualità della nostra vita dipenda molto dalla qualità dei nostri incontri. “Condividere il pranzo con persone ricche di esperienze di vita mi ha portato ad aprirmi, a dare una chance a chi ho vicino e condivide con me le stesse difficoltà.” A volte la pasta può scuocere. Può mancare un po’ di sale. C’è chi se ne lamenta, talvolta a ragione, talvolta solo perché il lamento è la forma più facile per esorcizzare la difficoltà ad entrare in relazione. Il nuovo è di quelli che trovano nella mensa un conforto che va oltre il menu del giorno: “Il cibo è ottimo, sempre disponibile tutti i giorni dell’anno. Non esiste chiusura. La fame non va in vacanza, no? E poi mi piacciono certi personaggi che mi gravitano attorno. Sono una istituzione. Non potrei pensare la mensa senza di loro.” Mi indica in particolare due persone, tra le più care a tutti noi. Invento i nomi, per rispetto della loro privacy. Uno è Giovanni, che mangia di fretta lasciando in un angolo il pesante zaino, per andare all’esterno a fumare infinite sigarette, e ci allieta con i suoi ritornelli, i suoi mood, le sue litanie. Sempre uguali nei modi e sempre diverse nei contenuti. È una fucina inesauribile di fantasie, di idee. Probabilmente di esperienze vissute, che non possiamo capire sino in fondo. È come una stazione radio in sottofondo, che si interseca perfettamente con il suono delle forchette. E l’altro è Salvatore, che unisce primo e secondo in un unico piatto, per formare un’unica pietanza. Una formidabile, esagerata urgenza di calorie, che lascia ben presto spazio al suo consueto angolo di erudizione pseudo-filosofica. La persona con cui tenta abitualmente di dissertare porta le cuffiette, spesso la musica è accesa; per cui deve trovare un altro interlocutore. “Non si stanca mai – conclude il nuovo – almeno a me così sembra. Finché un operatore viene a ricordargli l’orario di chiusura. Sai cos’è che mi fa bene? È che per me loro non sono solo quelli che condividono il mio stesso problema. Sono diventate un ‘tu’ che mi aiuta a capire meglio me stesso”. Succede, quando a contare non è solo quel che mettiamo nel piatto, ma tutto il contorno.